Don Matteo, "il Bersagliere"

In un mondo che man mano sarà sempre più dominato dall’esuberanza dei mezzi a motore, Don Matteo sfreccia in bici.

Quel Don Matteo, legato al corpo dei Bersaglieri per una sua “deformazione professionale” è Sergio Pisapia Fiore, in uno dei suoi (direi innumerevoli) spettacoli teatrali.

Sferzando l’Italia con le sue pieces un po’ come il suo Don Matteo fà con la bici, approda con la sua compagnia (dopo alcune peripezie confessate in un momento conviviale inaspettato) anche a Grosseto.

Dalle località toccate si potrebbe pensare ad uno spettacolo adatto al pubblico Nazionale, o anche solo Locale. Ma l’aggettivo che gli si addice di più è: Internazionale.

Se è vero che “il teatro è il mondo”  (e il mondo è teatro) come ci insegna anche Pisapia Fiore, l’assaggio di retorica, di maniera (quasi come nella storia dell’arte) e di narrazione che lo spettacolo dà, si rifà alla storia del teatro sì italiano, ma è in grado di insegnare ad uno straniero (anche alieno) una porzione di quelli che siamo. Della levatura etica di cui l’uomo può essere capace, e dei valori alti di cui può farsi portavoce. Il tutto, con semplicità.

Che dunque sia una lezione di storia e di memoria quella di Don Matteo? Può darsi. Può anche darsi che ne abbiamo bisogno.

In un mondo dello spettacolo in cui la spettacolarità vince sulla narrazione, in cui il non detto vince sul raccontato, nella quale il non percepito e percepibile abbonda nelle recensioni e lustra i cappotti di chi oramai si può essere abituato a un certo (non e non voler) fare teatro, uno spettacolo come il “Don Matteo” non può non avere voce.

E il timbro di voce che ha questo spettacolo ambientato una quindicina di anni dopo la seconda guerra mondiale, è quello di un padre che ha tutto da insegnare ai figli. Anche contro le normali regole, teso a far quadrare il mondo dentro al cerchio della giustizia anche a costo di avere grattacapi da persone gerarchicamente al di sopra di lui.

Il dialogo la fà da padrone, in un paese che forse, nel quotidiano, ne sta perdendo il valore. Il racconto asseconda il dialogo e fà protagonista il personaggio che non ha bisogno di descrizioni se non quelle che, in automatico, arrivano tramite le sue azioni e le reazioni degli altri.

Gli interpreti srotolano il loro personaggio davanti ad un pubblico che a volte si lancia in applausi rivolti alle gesta di Don Matteo come se le vivesse naturalmente. Tant’ è l’effetto del racconto sulla messa in scena.

In uno spettacolo che infondo porta avanti la tradizione delle famiglie itineranti del teatro (padre e figlia Pisapia Fiore sono in scena, come altri Pisapia Fiore lo furono in passato), si riporta indietro l’orologio del teatro. Un orologio che non si ferma, perché è, e vuole essere, non solo teatro, ma anche lezione. E se troppo dialogo talvolta può risultare faraginoso, non disperate, basta aspettare. Perché non tutto si può risolvere nell’immediatezza del niente che troppe volte, non qui, vuol esser preso per tutto. E se non aspetterete, irrimediabilmente dimenticherete, non solo tutto il discorso, ma anche il luogo dove siete per osservarlo.

Don Matteo supera luogo e storia e può essere scodellato sia davanti ad adulti che a persone da formare: non necessariamente come gente di mondo, ma come cittadini.

Con quella vena agroalimentare che (anche giustamente) fa sempre più parte anche del settore culturale, possiamo dire che Don Matteo è, per caratteristiche “glocal” e talvolta da Km-zero, uno Slow Theatre: gigante forzuto che marcia in avanti portandosi dietro i valori di “ieri”,  accomodandosi le tasche e prendendosi il tempo di ricordare e di stare a contatto con le persone, antieroe del “marveliano” Fast Theatre (il suo fratello cresciuto ma con forti, temporanee, crisi di identità).

E lo Slow Theatre “tira”. Lo dicono gli applausi.

Federico Catocci